Recensione Vizio di Famiglia

È la compagnia “Artistica…mente” di Recanati (MC) che, venerdì 2 ottobre 2020 al Teatro San Marco di Trento, ha aperto la seconda edizione del festival “IN_visibile” organizzato dalla Compagnia dei Giovani.

A partorire lo spettacolo è Antonella Pelloni, con una regia dal tocco femminile che riesce a colorare le scene, regalando al pubblico anche un po’ del suo vissuto.

È così che una donna sola, vedendo avvicinarsi i 40 anni, si trova davanti al bivio “o famiglia o solitudine” e sceglie così di lasciarsi travolgere dalle vicende di una famiglia tutt’altro che convenzionale, affittata in agenzia. 

Il bisogno di non sentirsi soli è forse il più diffuso tra i vizi: tiene insieme tante coppie che, anche se infelici, temono di più la solitudine; quello che spinge le persone a circondarsi di gente, senza un vero legame di affetto; quello che porta anche “Annalisa” (Attilia Pelloni) a recarsi in una fantomatica agenzia dove può scegliere con l’aiuto di un venditore esperto nel settore (Antonio Alfieri) la famiglia con cui passare le vacanze, trasformando la paura di restar soli in un vero e proprio “Vizio di famiglia”.

Un’esplosione di emozioni apparentemente più facili da capire per gli spettatori meno giovani, va però a convincere un pubblico più eterogeneo alternando scene di esasperata comicità a lunghi momenti di riflessione e drammaticità,  all’apice dei quali sta il “colpo di scena” nel momento in cui si viene a sapere che cavilli contrattuali vincolano la famiglia non per 30 giorni, bensì per 10 anni. Ma una famiglia non dovrebbe essere per sempre? Affittarne una, invece, dona l’illusione di una precaria stabilità, pronta a sgretolarsi a fine contratto. 

La compagnia veste caoticamente i panni di un nucleo famigliare davvero poco tradizionale caratterizzando i personaggi (ovvero un papà single, una suocera vedova, due bambini e la loro baby-sitter (Jessica Falleri), in maniera surreale, al limite della caricatura, per estremizzare scene di vita e di convivialità famigliare che vanno assolutamente controcorrente rispetto allo stereotipo tradizionalista delle famiglie della pubblicità. A sottolineare questo aspetto la scelta registico-testuale di costruire relazioni e necessità basate sulla presenza di figli, senza mai farli comparire in scena.

Un grande tavolo, alcune sedie e una mensola fanno da cornice per l’intero spettacolo, adattandosi anche loro ai cambiamenti. La scenografia, dapprima disordinata e “sporcata” da chiazze di colore (ma perfettamente intonata con gli abitanti della casa), trova alla fine colori tenui ed equilibrio, coordinati al nuovo essere della famiglia che trova stabilità grazie ad Annalisa.

A tenere il pubblico ancorato alle poltrone un susseguirsi di scene forti, al limite della violenza (fisica per gli attori sul palco e psicologica per gli spettatori), di “non accettazione” del nuovo (Annalisa, la “mamma-affittuaria”) o di legame morboso e tossico madre-figlio, e di temi importanti toccati in maniera più o meno dichiarata, quali la solitudine, il tradimento, l’alcolismo, la malattia…

Tutto questo intreccio, già di per sé avvincente, è sostenuto inoltre da eccelse interpretazioni. 

Roberta Sforza (nei panni della suocera) è riuscita a costruire il personaggio di una nonna forte e grintosa, avvolta in una sorta di lucida pazzia (quasi surreale) che si scopre solo poco per volta, e che arriva a mostrare le proprie debolezze, addirittura a piangere, solamente nel secondo atto, quand’è costretta a vivere su una sedia a rotelle a seguito di un ictus che ha paralizzato metà del suo corpo. Nonostante il ruolo e la malattia, la nonna rimane per l’intera durata dello spettacolo un elemento estremamente vitale, con grande presenza scenica, e fino all’ultima battuta l’interprete riesce a dimostrare quanto si sia calata a fondo nei panni del personaggio. Un esempio, di perfetta fusione tra interprete e ruolo, è Daniele Quintabà (Pietro, il padre) che in ogni parola pronunciata è stato in grado di mettere e trasmettere un’energia tale da far si che il pubblico in platea riuscisse a percepire le gocce di sudore scivolargli dalla fronte fino alle vene irrigidite sulle tempie e sul collo, passando da momenti assolutamente quotidiani e superficiali (come la lettura di un giornale o degli esercizi di ginnastica), a momenti estremamente forti, passionali o scattosi e violenti, senza mai perdere intensità e grinta.

Spettatori  spaesati e sconvolti, che tornano a casa con un carico di nuovi spunti di riflessione personale grazie all’avvincente alternanza tra la volontà di “avere” o “essere” una famiglia, i legami tossici, la confusione tra “amore” e “adattamento”, il senso di “salto nel vuoto” che sta tra una fine e un nuovo inizio, la straziante realtà di una grossa perdita “senza preavviso” grazie allo spettacolo “VIZIO DI FAMIGLIA”.

Maria Maestrelli e Pietro Revolti